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Sindrome di Alagille: maralixibat rallenta il danno epatico e riduce la necessità di trapianto

Il Prof. Lorenzo D'Antiga (Bergamo): “Per dimostrarlo abbiamo condotto uno studio di real-world evidence. Optare per un trial a lungo termine con placebo sarebbe stato antietico”

Lo studio pubblicato di recente sulla rivista Hepatology è di grande interesse per due motivi: innanzitutto perché riconosce l'efficacia del farmaco maralixibat, anche a lungo termine, nei pazienti affetti da sindrome di Alagille. La seconda ragione è che utilizza un metodo – quello di real-world evidence (RWE) – che ultimamente sta acquisendo un ruolo sempre più importante nella sperimentazione di farmaci per le malattie rare. Di questi due aspetti abbiamo parlato con uno degli autori dello studio, il Prof. Lorenzo D'Antiga, direttore dell'Unità Operativa Complessa di Pediatria dell'ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e Professore Associato di Pediatria all'Università di Milano – Bicocca.

Dr. D'Antiga, il suo è un centro che ha una grande esperienza nelle malattie del fegato, compresa la sindrome di Alagille.

“Sì, nel corso degli ultimi vent'anni abbiamo curato circa 60-70 pazienti con questa patologia: alcuni hanno subito un trapianto di fegato, alcuni sono diventati adulti e altri sono attualmente in età pediatrica. La sindrome di Alagille è una malattia genetica causata, nella stragrande maggioranza dei casi, dalla mutazione di un gene che si chiama JAG1: le conseguenti alterazioni si manifestano principalmente nel fegato, sotto forma di ipoplasia dei dotti biliari. Le vie biliari microscopiche che ci sono all'interno del fegato e che hanno il ruolo di trasferire la bile prodotta dal fegato nelle vie biliari principali, sono ipoplasiche, quindi di calibro ridotto o poco sviluppate, se non addirittura assenti. Ciò comporta un ristagno di bile (tossica) nel fegato, che danneggia l’organo fino a portarlo a una condizione di insufficienza epatica e di grave colestasi con cirrosi, condizione che, in una quota di pazienti, rende necessario il trapianto nei primi anni di vita. È comunque una malattia sistemica, che oltre al fegato interessa numerosi distretti del nostro corpo: le persone affette, oltre ad avere una facies particolare, possono manifestare anche una cardiopatia (più spesso una stenosi polmonare) o delle anomalie oculari o vertebrali”.

Il sintomo principale, però, è il prurito, una manifestazione comune nelle malattie in cui c'è un ristagno di bile nel fegato...

“Per fattori ancora non ben noti, la bile che non viene eliminata dall'intestino e ristagna nel fegato – e quindi, poi, anche nel sangue e nel corpo – causa questo sintomo terribile, che è molto invalidante e che talvolta costituisce l'indicazione al trapianto: anche se il fegato non è ancora arrivato a una situazione di insufficienza, il prurito è tale che questa può essere la ragione per cui si va al trapianto, in quanto il disturbo diviene insopportabile. Fino a pochi anni fa non avevamo alcun trattamento specifico in grado di evitare la progressione della malattia, che seguiva quindi la sua storia naturale. Certo, noi cercavamo di favorire l'eliminazione della bile da parte del fegato con dei farmaci e qualche volta anche con un intervento chirurgico particolare (la “diversione biliare”), ma ovviamente, se mancano i dotti che portano la bile nell'intestino, non c'è alcuna medicina che li possa far riapparire. Oggi abbiamo delle armi più efficaci contro la colestasi e il prurito associato: sono i farmaci maralixibat e odevixibat, che appartengono alla categoria degli inibitori di IBAT, ossia gli inibitori del trasportatore ileale degli acidi biliari. Ad oggi, solo maralixibat è rimborsato in Italia per il trattamento del prurito colestatico in pazienti affetti da sindrome di Alagille di età pari e superiore a due mesi”.

Uno di questi farmaci, il maralixibat, è stato l'oggetto della vostra indagine. In che modo è stato progettato lo studio?

“Per capire il particolare disegno clinico di questo studio dovremmo partire da un concetto filosofico: la metodologia più corretta per sperimentare un farmaco è il trial randomizzato e controllato con placebo (in cui, cioè, un gruppo di pazienti riceve un prodotto che non contiene il principio attivo). Purtroppo, però, alcuni risultati di una sperimentazione clinica si possono valutare solo dopo diversi anni di trattamento, come ad esempio quelli relativi alla necessità di trapianto epatico nella sindrome di Alagille. Nel mondo scientifico ci si domanda se prolungare così tanto gli studi randomizzati con placebo sia da considerarsi eticamente corretto, perché significa privare per un periodo relativamente lungo alcuni pazienti – quelli che vengono assegnati al braccio placebo – del beneficio di un farmaco che potrebbe rivelarsi promettente. Quindi, specialmente nel campo delle malattie rare, quando si tratta di verificare dei risultati a lungo termine, invece di utilizzare un gruppo placebo c'è molto interesse al possibile impiego di coorti storiche di pazienti, da cui recuperare i dati retrospettivamente. Sono i cosiddetti studi di real-world evidence (RWE), che si basano sui dati del mondo reale recuperati nei registri: i pazienti storici vengono confrontati con coloro che vengono trattati con un nuovo farmaco, senza che nessuno sia assegnato al placebo. Non si tratta di un disegno perfetto, perché i dati dei pazienti delle coorti storiche vengono raccolti retrospettivamente, e la selezione e il follow-up non sono controllati come in un trial prospettico: questi studi, però, al giorno d'oggi vengono considerati utili per evitare il sacrificio, non piccolo, dei pazienti che verrebbero assegnati (senza saperlo) al placebo e che magari resterebbero per più di un anno senza una terapia. È necessario chiarire che questo tipo di studi vengono considerati solo per verificare l'efficacia a lungo termine di una terapia, mentre per la valutazione dell'efficacia a breve-medio termine è sempre raccomandato l'utilizzo dello studio randomizzato e controllato con placebo”.

Quindi, nel vostro studio, avete deciso di confrontare i pazienti in trattamento con maralixibat con una coorte storica del registro internazionale Global Alagille Alliance (GALA)…

“Lo studio registrativo del maralixibat per la sindrome di Alagille, chiamato ICONIC, aveva un disegno di randomizzazione con placebo: i suoi risultati, pubblicati su The Lancet, hanno dimostrato che il farmaco riduce il prurito e migliora la colestasi. Era però uno studio a breve termine: il nostro, invece, è uno studio spontaneo, promosso dal centro coordinatore del registro GALA (l'ospedale SickKids di Toronto) con l'obiettivo di dimostrare che con maralixibat, anche nel lungo termine, c'è un beneficio sulla sopravvivenza dell'organo, e quindi sulla necessità o meno del trapianto. Perciò si è pensato di mettere insieme tutti i pazienti con sindrome di Alagille trattati finora con maralixibat (84, con un follow-up medio di 4-5 anni) e di confrontarli con la coorte storica del registro GALA. Un'esperta di statistica, Bettina Hansen, che figura come primo nome del lavoro, ha condotto una sofisticata elaborazione per selezionare i pazienti del registro, per trovare cioè pazienti il più possibile simili a quelli trattati, ad esempio per età, per severità e per i valori degli enzimi epatici. In seguito a questa selezione, dei 1.438 pazienti presenti in origine, ne sono rimasti 469. Abbiamo quindi confrontato gli eventi che avevano riguardato da un lato i pazienti trattati e dall'altro quelli del registro, per verificare se il trattamento incidesse sulla storia naturale della malattia. Gli eventi che abbiamo considerato sono quelli che indicano una progressione di malattia: le manifestazioni dell'ipertensione portale, per esempio la formazione di varici o di ascite, uno scompenso della funzione epatica, la necessità di un trapianto o il decesso”.

Quali risultati avete ottenuto?

“La somma di tutti questi eventi è risultata minore nei pazienti trattati con maralixibat, e questa differenza è statisticamente significativa. La nostra conclusione è che il farmaco non solo migliora il prurito, la colestasi, i livelli di bilirubina e dei sali biliari, ma riduce anche la necessità di trapianto e il decesso. Nei pazienti che rispondono al trattamento, maralixibat offre sicuramente un beneficio importante e migliora le prospettive future per quanto riguarda la malattia epatica. L'introduzione degli inibitori del trasportatore ileale degli acidi biliari rappresenta un grande passo in avanti nel trattamento di queste condizioni genetiche colestatiche, e maralixibat, in particolare, ha dimostrato di essere efficace in un'ampia proporzione di pazienti con sindrome di Alagille”.


Fonte: osservatoriomalattierare.it

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