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Robert Montgomery: «Io, re dei trapianti (con un cuore nuovo) in Africa ho ricevuto la lezione più grande»

Il chirurgo: «Ho avuto sette arresti cardiaci negli ultimi venti anni. Mi hanno proposto il cuore di una persona giovane morta di overdose che però aveva l’epatite C, non ho avuto dubbi, dovevo accettarlo»

Robert, ho sempre ammirato il tuo modo di essere medico e di esserlo per tutti, di qua e di là dell’oceano; la tua determinazione, la tua voglia di innovare stando sempre vicino agli ammalati. Chissà quante volte ti avranno chiesto come ti è venuto in mente di fare il medico e di fare il chirurgo e il chirurgo dei trapianti.

«Da giovane avrei voluto fare il veterinario, salvo che il mio babbo in quel periodo era malato gravemente di una malattia del cuore; ogni giorno quando tornavo da scuola trovavo la casa vuota, eh sì, perché mamma stava con papà in ospedale, e io non riuscivo a fare i compiti, così me ne andavo in ospedale. Osservavo per ore medici e infermieri assistere mio padre ed ero ammirato da come si prendevano cura di lui. L’epilogo di questa storia è stato tragico, papà è morto, ma dopo aver visto tutto quello che ho visto in quegli anni, ho deciso che avrei voluto essere medico».

Ma che studente eri?

«A dirla tutta avevo difficoltà a scuola, non avevo imparato un metodo di studio. Alle medie mi hanno messo in una scuola cattolica, eravamo in quattro nella stessa scuola: i miei tre fratelli, tutti più grandi di me, e io. A un certo punto una suora chiama mamma e le dice: “Guardi, i suoi tre figli più grandi sono proprio bravi, l’ultimo no. Certo che su quattro non può pretendere che siano tutti bravi”».

C’è una cosa che mi ha colpito, non sono sicuro di ricordare bene, ma le carte per essere ammesso all’Università le hai fatte in fretta e furia all’aeroporto mentre stavi partendo per l’Africa. Com’è che uno fa una domanda per accedere all’Università con la testa nell’Africa?

«Un’altra cosa che non è il mio forte è sapermi organizzare e pianificare le cose da fare in anticipo. Ho compilato la mia domanda per l’Università mentre aspettavo un volo che mi avrebbe portato in Africa, era il 1982; fu un’avventura incredibile, un viaggio in lungo e in largo per tutta l’Africa».

Perché proprio là?

«Volevo capire come lavoravano in Africa i medici locali, quelli della medicina tradizionale per intenderci, mi interessava capire se un giorno o l’altro avrei potuto incorporare le loro tecniche in quello che allora facevamo nella medicina pubblica per migliorare la qualità delle nostre cure».

Cosa può insegnare la medicina tradizionale ai medici del nostro mondo, ai medici occidentali, quelli dell’Europa e degli Stati Uniti?

«Dai medici (o guaritori) africani che lavoravano in piccoli e piccolissimi villaggi remoti ho imparato moltissime cose. Loro non avevano strumenti, nemmeno uno stetoscopio, per non parlare di esami di laboratorio, radiografie o Tac. E poi non avevano farmaci. Però dedicavano molto tempo a ciascun ammalato, volevano capire fino in fondo i loro problemi e il loro modo di affrontarli era quello di essere sempre vicini ai loro pazienti; ho trovato in loro una sensibilità davvero rara».

Robert, tu sei il direttore di un Centro di trapianto multiorgano, hai fatto tanti trapianti di fegato, di pancreas, di altri organi. Perché a un certo punto della tua vita ti sei concentrato sul rene? Che cosa ha di speciale il rene che gli altri organi non hanno?

«Non dipende tanto dal rene quanto dagli ammalati di rene. A un certo punto della mia carriera mi sono reso conto che ci sono tanti pazienti, sempre di più, che non vengono messi in lista di trapianto perché per varie ragioni hanno anticorpi contro qualsiasi tipo di organo si possa trovare; in quelle condizioni il trapianto non si fa. E così mi sono detto: “perché non concentrami sulle possibili strategie da mettere in atto per poterli fare comunque questi trapianti?”. Detto, fatto. In poco tempo il mio ospedale è diventato un punto di riferimento per tutti quelli che negli Stati Uniti sono in queste condizioni e vorrebbero poter tornare a una vita normale col trapianto».

E il fegato, il pancreas e gli altri organi?

«Quello lo sanno fare in molti; invece, trovare una soluzione per i pazienti che noi chiamiamo “iperimmunizzati” è estremamente complesso. Noi siamo vicini alla soluzione e gli altri no».

Abbiamo sentito che sei stato addirittura in Ucraina, di recente. Ma io sono curioso di sapere di quella volta che eri partito da Washington diretto a Parigi. Cosa è successo di preciso su quel volo?

«Ero seduto in aeroporto e cosa vedo? La più bella donna che avessi mai visto nella mia vita. La guardo, continuo a guardarla, poco dopo chiamano il volo e io vado a prendere posto e quella ragazza la vedo nel corridoio, avanza verso di me. Di solito il mio compagno di viaggio quando va bene è un clown, non è mai una bella signora, ma quella volta con mia grandissima sorpresa questa creatura meravigliosa viene a sedersi proprio di fianco a me. Parliamo tutta notte e quando l’aereo atterra a Parigi siamo entrambi delusi del fatto che il viaggio sia già finito, non avevamo chiuso occhio. Prima che ci lasciassimo la signora mi sorride e mi dice: “Beh, se le capita di ritornare a Parigi mi telefoni”. E io: “Torno fra quattro giorni, vado in Sardegna per un convegno, ma prima di riprendere l’aereo per gli Stati Uniti sarò di nuovo a Parigi, la chiamerò”. È stato così, e mi sono fermato qualche giorno, i giorni più belli della mia vita. A un certo punto lei mi chiede “Conosce un po’ l’ambiente di chi canta?”. E io: “No, assolutamente”. “E lei sa nulla di chirurgia?”. “No — dice lei — totalmente a digiuno”. Così le dissi: “Allora facciamo un patto: io la vengo ad ascoltare quando canta, e lei una volta viene da me in sala operatoria”. Dopo poco ci siamo sposati. Lei è Denyce Graves, mezzosoprano, aveva cantato in tutti i più grandi teatri d’opera del mondo e anche recentemente per il Presidente degli Stati Uniti in ricordo dell’11 settembre».

Sei stato un pioniere dei trapianti, sei il primo che da un donatore altruistico ha fatto partire una catena di donazioni che è arrivata fino a dieci persone. Hai potuto trapiantare persone con anticorpi contro quasi tutti i tessuti di quasi tutti i donatori. E hai fatto tutto questo nonostante fossi malato di cuore, lo sapevi per via di tuo papà. Anche tuo fratello è morto improvvisamente di cuore, mentre faceva sci d’acqua. E poi il tuo cuore si è fermato diverse volte, se non mi sbaglio.

«Sì, di fatto ho avuto sette arresti cardiaci negli ultimi venti anni: esperienze terribili tutte. La più drammatica è stata in Patagonia, seguita da uno stato di coma per diverso tempo. L’ultima volta è successo in Italia, a Matera, sono caduto a terra come un sacco di patate, avevo un taglio in fronte e mi sono detto: “Devo tornare in America il più presto possibile, perché è arrivato ormai anche per me il momento di avere un trapianto di cuore”. Ho firmato per lasciare l’ospedale e i medici, o meglio, le dottoresse di Matera sono state gentilissime: di solito quando firmi per uscire da un ospedale, per lo meno negli Stati Uniti, ti lasciano andar via così come sei; loro mi hanno lasciato una cannula endovenosa e mi hanno dato tutti i farmaci necessari per l’emergenza così da farmi rientrare sano e salvo».

Ti sei ritrovato in rianimazione in attesa di un organo che forse sarebbe arrivato o forse no. È una situazione difficile e tra l’altro è la situazione in cui sono la maggior parte dei nostri pazienti. E poi per te che sei molto alto bisognava trovare un cuore grande. E quando l’hanno trovato c’era un altro problema, ti hanno chiesto se eri sicuro che lo volevi, quel cuore lì. Perché?

«C’è un’epidemia dovuta alle sostanze oppioidi negli Stati Uniti, ci sono state circa 100.000 morti a causa di overdose, la maggior parte in persone giovani. Molte di queste però hanno l’epatite C, per via del fatto che si scambiano gli aghi delle siringhe mentre si drogano. Quando hanno proposto a me il cuore di una persona giovane morta di overdose, che però aveva l’epatite C, non ho avuto dubbi: “Devo accettarlo questo trapianto, per prima cosa perché l’ho fatto con altri ed è giusto che adesso lo facciano con me”; e poi mi sembrava bello lasciare un organo che non avesse questo problema agli altri che aspettavano».

Poi hai avuto l’epatite C, ti sei ammalato, hai preso il farmaco che cura l’epatite C in due mesi e che solo fino a qualche tempo fa non era disponibile, dopo otto settimane sei guarito, ma già due settimane dopo aver fatto il trapianto di cuore eri di nuovo in ospedale a parlare con i tuoi pazienti.

«Proprio così, l’epatite sarebbe guarita, lo sapevo, ma mi sentivo abbastanza bene da voler tornare in ospedale».

Robert, se tutto questo fosse successo 50 anni prima, la tua storia non avremmo potuto raccontarla. Il trapianto di cuore muoveva i suoi primi passi e per l’epatite C non c’era nulla che si potesse fare. La tua, insomma, è la storia del progresso della medicina.

«È esattamente così e vorrei che la mia storia servisse per i giovani che pensano di fare il medico ed eventualmente il chirurgo. È una vita di sacrificio, ma resta il più bel mestiere del mondo. Nella vita bisogna avere un obiettivo, un’idea e andare fino in fondo, con grande rigore; se è una buona idea ancora meglio».

Fonte: corriere.it


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